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The International Association for Relational Psychoanalysis and Psychotherapy
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IARPP eNews Volume 11, Number 1, Winter 2012

Personal Reflection on the work of Stephen Mitchell
by Maria Tammone
(click here for Italian)

Maria Tammone picture

Hi All,

I am Maria Tammone, from Rome. I’m a psychiatrist and psychoanalyst. I work in the Italian association, ISIPSÉ

I discovered Stephen Mitchell’s work about ten years ago during my training at ISIPSÉ and since then my work has been influenced by him. Relational thinking represented a new way of “being with” patients, in a real intersubjective situation, in which analyst and patient co-constructed an analytic field. I was particularly impressed by Mitchell’s words, “… The post analytical residues of the limited self-organization, the old object ties and the strict interaction models all exist as perpetual possibilities. Living in a constructive and creative way requires continuous choices.” from "Relational Concepts in Psychoanalysis. An integration".

In my opinion, Mitchell’s words mirror completely his orientation. They transmit to us the effort and the long road to build a different method of organizing one’s own possibilities for living fully and creatively. In particular, I was struck by the clinical case of “Connie.” The therapeutic context between Mitchell and Connie moved from a reciprocal reserve to a warm affectionate relationship, maintaining an asymmetrical situation. What remains in my mind is Mitchell’s willingness to be involved in a therapeutic tie full of unpredictable moments and complex developments.

A fragment of the paper will explain what I mean about Mitchell’s “ specific way of working” and his therapeutic technique: (italics added are mine) “… Connie surprised me by beginning a session in considerable distress. She felt there was something terribly, impersonal about the way I greeted her, without even saying her name, in the waiting room … . We explored Connie’s experience ... I explained that it was just not my customary style to mention people’s name when greeting them. She felt that what she experienced as the anonymity of my manner was intolerable and that, unless I would sometime mention her name she would be unable to continue. We agreed that I would try to find a way that was genuine for me. And I did. I actually found that I enjoyed saying her name… I even began to change my manner of greeting and parting from other patients.”

Mitchell’s availability and receptivity in each therapeutic relationship, his courage in being involved with his patients’ emotions, maintaining a reflexive function about the situations being acted -- all this, today, represents for me a model, which I hold as a background in my therapeutic practice and the way in which I work with my patients.

Come il lavoro di S. Mitchell ha influenzato il mio sviluppo professionale e pratica clinica
(click here for English)

Ciao a tutti,
Sono Maria Tammone, da Roma. Sono una psichiatra e psicoanalista (lavoro nell’Istituto italiano Isipsé).
Ho scoperto il lavoro di S. Mitchell circa 10 anni fa (durante il training “Isipsé”) e da allora il mio lavoro ha tenuto presente il suo pensiero. Il pensiero relazionale ha rappresentato un modo nuovo di “essere con” i pazienti, in un contesto realmente intersoggettivo, in cui analista e paziente co – costruiscono il campo analitico. Sono stata particolarmente affascinata dalle parole di S. Mitchell: “I residui post – analitici dell’organizzazione limitata del Sé, i vecchi legami oggettuali e i rigidi modelli di interazione esistono tutti come possibilità perpetue. Vivere in modo costruttivo e creativo richiede una scelta continua” (da “Gli orientamenti relazionali in psicoanalisi”) . Penso che queste parole di Mitchell rispecchino in pieno il suo orientamento. Esse ci trasmettono il proposito e la lunga strada per arrivare ad un modo diverso di organizzare le possibilità di ciascuno, per vivere in modo pieno e creativo. In particolare penso al caso clinico di “Connie”. Il contesto terapeutico tra Mitchell e Connie si trasformò da una reciproca distanza ad una relazione terapeutica affettuosa e calda, rimanendo allo stesso tempo una relazione asimmetrica. Rimane nella mente la disponibilità di Mitchell ad essere coinvolto in un legame terapeutico denso di sviluppi complessi ed imprevedibili. Un frammento del lavoro spiegherà meglio cosa intendo per “lo specifico modo di lavorare” di Mitchell e la sua tecnica terapeutica. “…Connie mi sorprese, cominciando la seduta con una notevole angoscia. Sentiva che c’era qualcosa di terribilmente impersonale nel modo in cui io la salutavo, senza mai dire il suo nome, nella sala d’attesa … riflettemmo sull’esperienza di Connie. Le spiegai che non era nel mio stile consueto dire il nome delle persone quando le salutavo. Lei, d’altra parte, sentiva che sopportare ulteriormente l’anonimità del mio modo di fare era intollerabile per lei, e che, a meno che non avessi qualche volta nominato il suo nome, non sarebbe stata in grado di continuare. Concordammo sul fatto che avrei provato a trovare una modalità che fosse autentica anche per me. E lo feci. Ora trovo che mi piace dire il suo nome … cominciai a cambiare il modo di salutare anche gli altri pazienti”. La disponibilità di Mitchell, la sua sensibilità, il suo coraggio nel farsi coinvolgere all’interno della dinamica col paziente mantenendo una funzione riflessiva sul processo in atto; tutto questo oggi rappresenta per me un modello, che tengo come sfondo nella mia pratica terapeutica e nel modo di “essere con” i miei pazienti.

 

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